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A cura di Giorgio de Marchis (mail: [email protected])

 

Ungulani Ba Ka Khosa: Ualalapi

Un romanzo storico africano.

 

Ungulani Ba Ka Khosa, Ualalapi, AIEP editore.
Traduzione di Vincenzo Barca

Finalmente anche i lettori italiani potranno apprezzare uno dei migliori romanzi africani degli ultimi anni. La casa editrice Aiep - che in passato aveva già edito, solo per quanto riguarda l'area lusofona, i brasiliani Lya Luft ed Edilberto Coutinho, il mozambicano Álvaro Marques, i capoverdiani Orlanda Amarilis e Germano Almeida e l'angolana Wanda Ramos - ha, infatti, recentemente pubblicato Ualalapi, opera del romanziere mozambicano Ungulani Ba Ka Khosa. Un romanzo storico africano, insolito e inquietante, in cui si narrano le vicende del regno di Gaza, dall'ascesa al potere di Ngungunhane fino alla sua sconfitta, sul finire del XIX secolo, ad opera delle truppe portoghesi guidate dal "pacificatore" Mousinho de Albuquerque.

Un ottimo romanzo che racconta la storia ma che, allo stesso tempo, la interrroga. D'altra parte, l'epigrafe della scrittrice portoghese Agustina Bessa-Luís con cui si apre il romanzo rivela immediatamente i dubbi e le incertezze dell'autore circa la possibilità di stabilire la veridicità o meno del passato: "La storia è una narrazione controllata." Deciso a liberare la storia da qualunque controllo e disposto a moltiplicare i punti di vista, pur di riuscire a ricostruire almeno parzialmente il dramma del proprio popolo, Ungulani Ba Ka Khosa (nome tsonga di Francisco Esau Cossa) organizza la sua opera cambiando continuamente i punti di vista e presentando testimonianze parziali su avvenimenti fondamentali della storia mozambicana (l'uccisione di Mafemane, la vittoria degli nguni sui machope e, infine, la distruzione della città di Chaimite e la cattura di Ngungunhane, il sovrano che per anni aveva terrorizzato i coloni portoghesi). In questo modo, nel corso dei sei capitoli che costituiscono Ualalapi, le singole verità, prese singolarmente appaiono insignificanti, se non addirittura incomprensibili, come singoli tasselli colorati interpretabili solo all'interno di un mosaico più vasto.

Il passato del Mozambico non può, dunque, essere ricostruito con l'ausilio di un unico testimone, per quanto illustre esso sia - e, in quest'ottica, deve essere interpretata la trascrizione, ironica perché spesso contraddittoria e inverosimile, di frammenti tratti dalle fonti ufficiali scritte dai dominatori portoghesi (i sei brani intitolati "Frammenti della Fine"). Attraverso questo procedimento creativo, Ualalapi evita anche di sacralizzare il passato, resistendo alla tentazione di presentare le vicende del regno di Ngungunhane come un racconto di vittimizzazione. La storia mozambicana, dal punto di vista di Ungulani, è infatti una tragedia: la condizione in cui il Bene appare impossibile e in cui qualunque scelta genera solo lacrime e morte.

Paradossalmente, solo la moltiplicazione degli sguardi e l'accumulo delle relazioni discordanti, consente all'autore di presentare una storia integra. L'unica di cui il Mozambico abbia realmente bisogno, per riuscire a sfuggire al proprio passato e per evitare, mantenendo una viva coscienza dei legami storici, di ricadervi. Il capitolo conclusivo del romanzo, "L'ultimo discorso di Ngungunhane", più precisamente la requisitoria dell'hosi al suo popolo prima della partenza per l'esilio (pp. 113-120) è, in questo senso, il momento più drammatico del libro. La maledizione del sovrano condanna a un futuro di miseria il suo popolo: alla violenza degli nguni seguiranno le devastazioni dei portoghesi e, dopo di loro, le disgrazie non saranno finite perché "avidi di cibo farete pappe di merda che provocheranno diarrea e vomito che riempiranno le case di cemento, uscendo poi per i corridoi e le scale senza gradini fino a raggiungere i giardini e le strade, provocando il diluvio di diarree e di vomiti che annegherà bambini e vecchi, uomini e donne, che diverranno il pasto di topi giganteschi ormai liberi di circolare nei viali e nelle case senza padrone."

Una tragedia nazionale e collettiva prefigurata dal dramma personale del figlio di Ngungunhane - Manua, la cui vicenda è narrata nel quinto capitolo - uno dei primi mozambicani a soffrire la lacerazione dell'espatrio, quel processo al termine del quale ciò che un tempo è stato familiare diviene irrimediabilmente estraneo. Incapace di capire chi era, privo di un'identità in qualche modo stabile, ormai a disagio in una patria che non sia immaginaria perché rifiutato dai portoghesi come dai suoi connazionali, Manua appartiene alla stessa disgraziata famiglia di Obi Okonkwo e di Moammed Sceab, discendente, quest'ultimo, di emiri di nomadi e, come lui, "suicida perché non aveva più Patria". .

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